Orfeo
4 Maggio 2016

Introduzione alle opere teatrali


a cura di Luca Molinari

I l Teatro delle Porte include un'antologia di sedici opere, scritte da due autori inediti: Giorgio Delle Chiaie, un uomo, per dirla alla Camus, felice di riportare in cima il suo macigno ogni volta che rotola a valle, ma al tempo stesso un indomito cinquantenne in eterna rivolta con se stesso, sebbene l’identificazione con il mito di di Sisifo sia alquanto altalenante, e Sormani, un eterno trentenne dallo spirito dionisiaco, convertito alle ragioni dell’illusione da un insopprimibile quid onirico.

Il fil rouge che lega i due autori - che poi, come si vedrà in seguito, è il collegamento usato dagli stessi per dare una connotazione definitiva a ciò che si sono proposti di fare - risulta evidente sia nello stile che nell'ispirazione.

Lo stile è indubbiamente libero, prima di tutto, che non affonda certo le radici formative nelle migliori aule accademiche del mondo, ma che è comunque inconfondibile, in primo luogo perchè è uguale a quello di tutti gli altri proprio perchè è diverso, e in secondo perchè si avvale di una prosa non edulcorata, scevra da quelle spasmodiche ricerche che si fanno per limare i caratteri professionali del personaggio che si è appena dato alla luce, eccezion fatta per qualcuno beninteso, in una parola è - come ho appena detto - libero.
Nell'ispirazione invece, all'occhio attento del lettore non può non trasparire lo studio dei classici come una prosopopea fenomenologica: le cose prendono vita da chiare emulazioni cogitative, proprie di autori senza tempo che sanno rendere attuali cose dette secoli fa permeando ogni frase o battuta di questo o di quel personaggio così come un'indispensabile pioggia provvidenziale permea un terreno arido, che non è più in grado di offrire i suoi frutti alla collettività.

In sintesi, la parola chiave tra i due autori è connessione. La parola connessione implica una serie interminabile di significati ed è a tal proposito che, riallacciandomi a quanto detto prima, tenterò di chiarire alcuni aspetti legati ai loro propositi, senza tuttavia entrare nel merito del valore semantico (per altro noto a tutti) di un'intestazione come quella che hanno scelto di usare.

Il Teatro delle Porte, filologicamente parlando, potrebbe rientrare in quel genere di teatro dove un inserimento inaspettato e condiviso da una parte della critica letteraria è visto ancora come qualcosa di prematuramente indefinito, ma al tempo stesso capace di spostare, se pur di poco, l'asse di un ipotetico baricentro post surrealista: basti pensare a l'”Orfeo” di Cocteau per rendersi effettivamente conto di quanto l'”Orfeo” di Sormani saprebbe diversamente evocare la stessa eco mitica, senza per altro, almeno in questo caso, dover ricorrere a sotterfugi scenici. Concettualmente il Teatro delle Porte è un teatro onirico, dove il sogno è ricerca e introspezione, ma dove soprattutto è lo spettatore ad essere proiettato in un micro cosmo dove orbitano svariate forme di emozioni.


N ell’arco di quasi dieci anni Sormani deve aver mantenuto fede a un principio rigorosamente personale - quello cioè di considerare una buona parte delle sue composizioni semplice spazzatura - che probabilmente gli ha consentito di valorizzare non soltanto quella comune consapevolezza che permea ogni artista degno di tale definizione, ma anche di osservare con un’analisi maniacale il proprio operato.

  • L’”Orfeo” ne è una palese dimostrazione. E partirei proprio da questa tragedia (in un atto) per dipanare i virtuosismi contenuti in tutte e dieci le opere esibite. Pensare un Orfeo come è stato pensato da Sormani vuol dire ossessionarsi a tal punto da non pensare ad altro per un tempo indefinito, che potrebbe essere due mesi, così come tre anni, se non addirittura un decennio. La catabasi di Orfeo per andare a riprendersi Euridice è vista come un’azione paradossalmente ludica, nonostante sia intrisa di pathos fino al midollo. Orfeo, nei suoi sogni più reconditi, immagina di essere un attore dei giorni nostri, idolatrato da un vasto pubblico ma al tempo stesso insoddisfatto della vita che gli scorre davanti troppo in fretta relegandolo a un ruolo che lui stesso considera minore (Er Monno “ ... ma io sto più male de te, che me frega de er successo d’un momento se posso mette er nome mio alla pari di quello dei giganti de er teatro? ") sia per lo spessore culturale, che per il coinvolgimento sentimentale con una bellissima attrice che deve interpretare una Baccante. Secondo Orfeo gli Dei hanno ordito la trama di un gioco infernale allo scopo di provare il suo amore per Euridice, e hanno intenzione di vedere fino a che punto questo “lurido verme di un poeta tracio” sarebbe disposto a perdonarli. L’intera tragedia si dipana in una spirale medianica vertiginosa, sconfinando nei meandri della mitologia greco romana per attraversare quei processi cognitivi che tentano di condurre all’ignoto. L’assenza di sotterfugi scenici rende al testo l’esatta ubicazione verbale, propria di un teatro dove il luogo e la parola si fondono in un unico elemento che rende verosimile gli eventi narrati.

  • La seconda opera tratta da questa antologia è una pantomima. “Questa sera scena muta”, ovvero, da come si può analogamente evincere dal sottotitolo, una recita creata ad arte per tutti coloro i quali pensano che al giorno d’oggi i classici necessitino di una maggior lirica, non è soltanto la mimesi di un classico per antonomasia, quale è l’”Amleto”, ma è anche la rievocazione poetica di un modo di intendere la drammaturgia. I personaggi prendono corpo e vita propria dal nulla più assoluto, osservando gli spettatori, che a loro volta li osservano per capire come lo spirito di Amleto possa emergere da altri spettatori in un contesto inedito. E, per manifestarsi, è lo stesso spirito che induce i personaggi a vestirsi in scena e ad adattare alla propria tragedia - prima che “il marcio di Elsinore”(N.d.A.) si compia per l’ennesima volta - una delle innumerevoli tragedie che si consumano nel vissuto quotidiano. Poco importa che si tratti di un fatto di cronaca o che si tratti di pura finzione, ciò che importa è che prepari lo spettatore alla sua empatia. Sono i personaggi che si vestono in scena a diventare spirito, a emulare le sue gesta attraverso le rispettive visioni esistenziali dei personaggi della sua tragedia, senza dover necessariamente ripetere parole su parole per cercare invano di far proprio un patrimonio che invece appartiene all’umanità. Per questo, per ogni personaggio della tragedia che muore (partendo dal Re Claudio fino ad arrivare allo stesso Amleto, passando per la Regina Gertrude, il consigliere di stato Polonio, il figlio Laerte e la sorella Ophelia, incluso il fantasma del padre di Amleto) l’interpretazione dell’unico personaggio che si cala nelle loro parti è mostrata così dettagliatamente. Inoltre, da come si deduce dall’Avvertenza, il fatto di fare interpretare a un unico personaggio i sei/sette ruoli più importanti, per l’autore deve essere paradossalmente stata la molla che lo ha spinto ad avventurarsi in un terreno così arduo ed impervio, che soltanto un retaggio atavico come questo poteva escluderlo dal renderlo un semplice postulato. Un altro aspetto interessante di quest’opera sta nell’aver centrato appieno ciò che inevitabilmente viene a crearsi quando le cose vanno più o meno male per tutti, e che determina l’incomunicabilità esistente tra l’autore e il produttore di uno spettacolo : parallelamente al dramma infatti emergono soltanto le aggravanti di un sistema imperniato sui tagli economici, per le attenuanti probabilmente si dovranno aspettare ancora molti altri anni. Con l’avvento tecnologico, che ha portato un’innovazione determinante, sia in campo artistico che nella vita comune - e che sotto molti aspetti ha migliorato entrambe le condizioni, nonostante l’uso eccessivo e a volte decisamente superfluo di queste nuove tecnologie abbia contribuito a peggiorare i già precari rapporti interpersonali - si sono aperti e si continueranno ad aprire scenari sempre più imprevedibili.

  • A tal proposito, analizzando la terza opera di Sormani, varrebbe la pena prendere posizione, schierarsi contro o a favore dell’utilizzo di queste tecnologie. “Making Dracula” è una commedia in tre atti, che ricalca non del tutto fedelmente, ma quasi, il film di Francis Ford Coppola tratto dal romanzo di Bram Stoker. Lo scenario è un set cinematografico, dove un regista, oltre a ricoprire il suo ruolo ricopre sia il ruolo di Dracula e del principe Vlad, e sia quello del dio mesopotamico Assur, eponimo degli antichi Assiri. Nello scorrere il piano sequenziale, ciò che si evince da quest’opera riflette vagamente l’interesse di anteporre il dialogo elegiaco agli effetti speciali, in quanto priorità narrativa, ma non lascia dubbi interpretativi riguardo la posizione assunta dall’autore nei confronti dell’utilizzo di tecnologie innovative in un contesto cinematografico. Nel suo complesso, evocando emozioni che gli stessi personaggi suscitano, “Making Dracula”potrebbe essere vista come una rilettura in chiave teatrale di una bellissima storia d’amore epica, o come una di quelle commedie cui sarebbe interessante poter assistere fisicamente alla rappresentazione.

  • La quarta opera, la più bella forse - probabilmente perché per me Kafka rappresenta l’apice del pensiero libero - è l’accurata trasposizione di uno dei suoi lavori più straordinari: “Il Castello”. A proposito di questo lavoro, di Kafka - dico lavoro perché lavoro è una parola che per definizione dovrebbe essere considerata più importante della vita stessa, e non soltanto essere un’attività produttiva legislativamente pseudo tutelata, e proprio perché in fondo di questo si tratta - Elias Canetti disse che mai fu scritto un attacco più chiaro contro la sottomissione a ciò che è superiore. Le parole di Paola Capriolo, curatrice della traduzione e dell’introduzione de “Il Castello” bastano a riassumere e a rendere chiaro ciò che Kafka intendeva per vita e per lavoro. “A proposito di Klamm” dunque è un’opera,a mio modesto modo di sottoporre a recensione le opere di Sormani, completa, pedagogica, invitante alla rappresentazione reale proprio per la potenza dei contenuti, e soprattutto per le persone impiegate: non a caso il Castello appare allo sguardo dell’agrimensore K. come l’intero complesso di attori e di comparse che si alternano tra il palcoscenico e il pubblico della platea, non a caso i costumi riproducono fedelmente (ma sarà poi vero che la riproducano?) la parvenza dei personaggi. In tutti e cinque gli atti si avverte ciò che l’agrimensore K. avverte e osserva. Ciò che avverte è quell’impulso irrefrenabile alla ribellione contro qualunque figura autoritaria, un impulso represso dalle stesse autorità che abitano all’interno del Castello, che amministrano il villaggio secondo un principio di leggi illogiche dettate da una piramide gerarchica assurda e immorale. Ciò che osserva è il Castello come simbolo del potere, e la sua unica ambizione è quella di mettersi al al servizio del conte che ci abita, e che lo ha fatto chiamare. Ma le difficoltà sono insormontabili. Solo quando tutte le fatiche di K. si saranno rivelate inutili la sorte gli offrirà l’occasione di parlare con un’autorità del Castello, ma K. sarà troppo stanco per continuare la sua lotta. Memorabile la scena del sogno di K. che lotta contro un funzionario e celebra la propria vittoria con tutti gli attori apparsi in scena.

  • La quinta opera è “La quinta voce”. Giochi di parole a parte, “La quinta voce” è la storia di un regista presuntuoso e libertino, che vive una crisi di coppia con la moglie, sua coetanea, fingendo di non sapere che una bellissima e giovane attrice, sua amante, si è accordata proprio con la moglie per smascherare la sua dissolutezza. Lei, la moglie, è depressa a causa di non essere mai stata capace di convincerlo a fare un figlio, ed è convinta invece che lo farebbe con l’amante. Queste convinzioni la portano ad elaborare un sogno che viene interpretato come vero, sia da lui che dall’amante, la quale prendendo atto del comportamento riprovevole di lui, rivendica con lei gli abusi e i soprusi di un universo maschile sempre più avvilente. Alla fine un fatto di cronaca ripercorrerà gli eventi narrati con molte analogie, ma da una prospettiva completamente diversa, lasciando il beneficio del dubbio e dell’imprevedibilità dell’agire umano. Riconoscibile il debito contratto con “Le voci di dentro” di Eduardo De Filippo, anche se l’autore ha preferito rendere omaggio a Pessoa.

  • Sesta opera di questa antologia inclusa nel Teatro delle Porte è “Pentagramma cinetico”, un’altra opera tragica, di introspezione onirica, dove il violinista Normasi, fondatore del gruppo musicale “Pentagramma cinetico” sogna che anche nella città in cui sogna di vivere sia definitivamente scomparso il quieto vivere. Costretto, come la maggioranza dei cittadini a subire la tirannia di stampo economico politico dell’ordine costituito, rappresentato dal sindaco e da tre assessori, il violinista Normasi diventa famoso e popolare suonando la sua musica in movimento. L’esagerato consenso però, ritenuto fonte di possibili e pericolose eversioni, viene strumentalizzato dal sindaco per demonizzare il violinista inducendo i cittadini a credere che è proprio a causa di quella musica suonata in movimento che in quella città si continuano a perpetrare delle incomprensibili stragi familiari. La responsabilità del quieto vivere sarà dunque giudicata da i cittadini, i quali, come nella maggior parte dei casi avviene in ogni democrazia quando la popolazione è costretta ad esprimere un giudizio su argomenti rilevanti, si divideranno in due fazioni, lasciando così allo spettatore la libertà di schierarsi.

  • Come in un qualsiasi programma televisivo satirico anche in "Satirologia" - la settima opera di Sormani - ci sono tutti gli elementi che servono ad identificare i personaggi che devono per forza di cose essere presi in giro per cercare in qualche modo di riequilibrare l'effetto dirompente provocato da altri programmi televisivi satirici : peccato però che sono gli stessi comici che vengono derisi e umiliati con le loro battute, allo scopo di infondere nell'opinione pubblica la consapevolezza che è proprio grazie a determinate irrisioni che paradossalmente i politici continuano a svolgere indisturbati il loro operato fallimentare.

  • Da come si può evincere dal sottotitolo, "tavolocontritatutto" - l'ottavo lavoro tratto dallo stesso autore - è una farsa in piena regola, o meglio, la biografia di una farsa - nel senso proprio del termine. Tutto viene messo in discussione continuamente : dalla scena in atto a ciò che viene usato, dagli attori ai personaggi, dal complotto alle rivelazioni, dalla tragedia alla comicità, dal pubblico all'autore, e via dicendo. Quello però che sembra essere indiscutibile - ovvero Il Tritatutto, una sorta di essere superiore che domina e condiziona la vita di noi tutti, oppure, a volerlo interpretare ancora diversamente, l'Amore, nel suo senso più puro, che poi rappresenta in ogni caso il divino - non si vede, o meglio, si vede come un oggetto e si intende come fede, quella propria, personale (il fatto cioè di credere o non credere che ci sia, che esista davvero un essere superiore) di conseguenza, paradossalmente, tende a riflettere i limiti della nostra esistenza, sia di chi la fede ce l'ha e sia di chi non ce l'ha.

  • "Permessi & Divieti" invece, la nona opera, è una rappresentazione paradossale della e sull'educazione, soprattutto sul come riuscire a trasformare e forgiare a propria immagine e somiglianza il pensiero di un bambino che sta ancora frequentando l'asilo, preparandolo così ad entrare nel mondo della "Scuola" sapendo già quale genere d'istruzione dovrà seguire. Una visione purtroppo amara e per certi versi ineluttabile, non soltanto per quel che concerne l'ambito pedagogico. All'occhio attento del Lettore non sfuggirà certo l'importanza sociale che una rappresentazione di questo genere, di chiaro stampo brechtiano, potrebbe suscitare se venisse rappresentata realmente.

  • Infine, il mio personale commento a riguardo della decima e ultima fatica esibita da Sormani in questa raccolta non può e ovviamente non potrebbe essere che entusiasta - non soltanto perchè rileggendolo dopo circa sette mesi ho riprovato le stesse emozioni, ma soprattutto perchè in "Donna Cedille" si capisce che è il cuore l'unica cosa che realmente conta in questo mondo. Il tributo a Cervantes è evidente in ogni parola pronunciata sia da Blanca che da tutti gli altri personaggi che calcano la scena.


  • D opo questa ampia sintesi dedicata all’analisi delle opere di Sormani è arrivato il momento di aprire la porta - è proprio il caso di dirlo - sull’universo artistico di Giorgio Delle Chiaie. Il teatro di Delle Chiaie si basa concettualmente su narrazioni avveniristiche, dove il futuro, forse per esorcizzare scenari apocalittici, per altro plausibili, o forse per tentare di stimolare nuove rappresentazioni, è visto sia come una minaccia che come un’opportunità.

  • Tra i sei lavori esibiti in questa antologia quello che risulta essere più fedele al concetto avveniristico espresso dall’autore è “Sir Play”. Nella seconda metà del ventunesimo secolo il mondo è condizionato da una serie impressionante di innovazioni tecnologiche : una multinazionale, che detiene il monopolio della maggior parte dei prodotti commerciali (orientandone i consumi, tra cui una sfera interattiva in grado di controllare i sogni della gente) è alla continua ricerca di persone che abbiano requisiti fondamentalmente creativi, con l’ambizioso obiettivo di estendere al maggior numero possibile di utenti la condivisione di uno stile di vita omologato, in modo tale da poter esercitare un rilevante controllo socio economico. A capo di questa multinazionale c’è un magnate avido e corrotto, il quale, oltre a disporre di un avanzatissimo sistema di spionaggio, con l’appoggio politico finanziario di altri “corrotti di fiducia” è seriamente intenzionato a sovvertire sia l’ordine costituito (britannico) che l’O.N.U., dominando sostanzialmente il mondo intero. “Sir Play”, ovvero Richard Knightsword”, un giovane disoccupato inglese, viene convinto da sua moglie - in realtà più che essere convinto, la moglie è costretta a convincerlo - a provare questo oggetto di nuova generazione tecnologica (la sfera interattiva) per entrare in una dimensione onirica cosciente, nonostante lui si sia sempre categoricamente rifiutato. Nasce così questo magnifico racconto sulla fiducia (N.d.A.) ricco di suspence e di empatia, che offre molti spunti di riflessione, di certo il più donchisciottesco (anche qui, come in Sormani, il debito con Cervantes è palese) e potente, dal punto di vista narrativo, una valida testimonianza di valori umani che purtroppo si stanno progressivamente perdendo. Affascinato dal mondo anglosassone Giorgio Delle Chiaie ha imperniato diversi lavori ambientati in scenari d’oltremanica. “Sir Play” può dunque considerarsi in effetti la prima opera di una trilogia (sulla fiducia, sulla passione, e sulla speranza) dove il Regno Unito gioca un ruolo universalmente riconosciuto, sia per i luoghi reali che per i luoghi di fantasia, permeando lo stesso carattere dei personaggi. I personaggi di Delle Chiaie, i cattivi in particolare, sono tendenzialmente auto celebrativi, intrisi di potere e di dominio, di sopraffazione e di speculazione, in altre parole sono dei simulacri di oscure entità malefiche che paradossalmente vorrebbero avere il controllo totale sul genere umano per tentare di migliorarlo.
  • La storia di “Ethan e Audrey”, seconda fatica esistenziale dell’autore - fatica esistenziale intesa come mera opera rappresentativa, non come riferimento autobiografico - è passione allo stato puro. In una dimensione più vicina ai giorni nostri che a quelle passate, o future, il vecchio Ethan narra alla piccola Audrey come due innamorati, che vivono in un’altra dimensione, riescono a coronare il loro sogno d’amore impossibile : lui è un attore di terz’ordine, figlio di un operaio che ha venduto la sua unica casa di proprietà per finanziare uno spettacolo mirato a screditare lo strapotere economico di una multinazionale (che produce intelligenze artificiali da adattare su degli androidi) i cui profitti stanno per concretizzarsi in un probabile, nonché catastrofico, controllo atmosferico. Lei è bella, giovane, ricca e famosa, oltre ad essere la figlia del magnate che è a capo di questa potente multinazionale. La passione dunque sboccia e si consolida, inevitabilmente però genera conflitti insanabili nelle rispettive famiglie che portano addirittura alla premeditazione di un omicidio (commissionato dal padre di lei a un androide che ha collaborato alla realizzazione dello spettacolo, il quale, umanamente lo sventerà, autodistruggendosi). Durante il racconto sorgono analogie sconcertanti, tali da indurre a pensare che lo stesso racconto sia frutto di un’elaborazione mentale della coppia, come se gli artefici di tutto siano proprio loro: Ethan e Audrey, ovvero una sorta di unico Prospero de “La tempesta”. Scritti in uno stile deliberatamente provocatorio, i tre tempi di “Ethan e Audrey” ricalcano i classici del passato ponendo interrogativi etici prioritari, che dovrebbero trascendere e anteporsi a quelli di semplice natura estetica.
  • La trilogia si chiude sulla speranza - tema particolarmente affascinante e controverso, senza dubbio il più umano - una speranza condivisibile per la maggior parte delle persone, vale a dire che nonostante tutte le guerre e i conflitti, che ormai imperversano ovunque, il mondo possa continuare a esistere come è sempre esistito. Anche in questo caso lo scenario è apocalittico: verso la fine del ventunesimo secolo un asteroide grande quanto il pianeta Terra sta per entrare in rotta di collisione con il nostro mondo. Lo stato d’allerta però viene diramato soltanto due anni prima il fatidico impatto, generando un prevedibile e incontenibile caos totale, sia per la notizia in se che per un’altra notizia ancora più sconcertante, ovvero che a seguito di collaudate spedizioni effettuate sul pianeta Marte durante l’arco di trent’anni, un cospicuo numero di massoni, con la connivenza implicita di medici, scienziati, politici e altri, sempre appartenenti allo stesso Ordine segreto, stanno già vivendo su tre basi marziali che hanno realizzato, e che oltretutto stanno tentando di salvare una minoranza dei loro simili con un eccezionale piano d’evacuazione. Elisabeth Queue, un’antropologa scozzese, moglie dello scienziato Ian Hamilton, il quale ha suo malgrado contribuito a molte scoperte scientifiche e che proprio perché si è dimostrato di non essere in linea con il terrificante progetto dei massoni è stato assassinato, vive con i suoi due figli a Wick, una cupa e desolata cittadina del Nord della Scozia, che si trova di fronte alle isole Orcadi, ignara del fatto che anche loro sono stati reclutati dall’Ordine massonico per il piano d’evacuazione. In realtà i suoi figli sono stati strumentalizzati da alcuni membri dell’Ordine proprio per agevolare l’omicidio del marito ed evitare così di essere incriminati. L’unica “speranza” che resta a “Lizzie Queue” è quella di trovare una morte degna del suo essere, speranza che si rivela tale malgrado tutto.
  • Il quarto lavoro tratta della coscienza. Una coscienza vista più come senso di responsabilità comune che come auto imposizione a seguire dei principi ritenuti giusti. L’era è la stessa dei lavori precedenti, ovvero la fine del ventunesimo secolo, o meglio, nella fattispecie, quasi a cavallo con l’alba del ventiduesimo. “Il giorno dei corpi insani” è ambientato in un mondo dove sono proprio i replicanti (i corpi insani) a dimostrare di avere molta più coscienza rispetto agli esseri umani. Gli umani - dei quali sarebbe più opportuno cancellarne l’essenza dal vocabolario, coniando altre definizioni - si servono di questi replicanti per sviluppare ricerche scientifiche innovative, come ad esempio il teletrasporto, per combattere guerre, e per molti altri scopi, tra cui scoprire il gene dell’immortalità. Ed è proprio quando questo gene dell’immortalità viene scoperto che inizia, per loro, il calvario dell’estinzione, la spasmodica ricerca per eliminarli definitivamente, la fatidica caccia. L’estinzione però non si compirà definitivamente : una coppia di replicanti, Arimane e Mani, riusciranno malgrado la loro eliminazione, a creare un nuovo essere, concepito in assoluta libertà e nato dalla fusione del replicante con l’umano. Arimane, che nello zoroastrismo rappresenta il principio del Male, oltre a essere una delle figure spettrali più influenti nel “Manfred” di Byron, in questo caso viene paradossalmente raffigurata a ricoprire, insieme allo stesso Mani, omonimo fondatore del manicheismo, il ruolo opposto. Interessante l’allestimento, sia per l’essenzialità che per le ombre cinesi.
  • Con “Il Regno delle Cose” - penultimo lavoro esposto - l’autore apre una vera e propria porta dimensionale da cui pare voglia introdurre a qualsiasi costo lo spettatore a godersi lo spettacolo, coinvolgendolo in ogni caso. In questo caso l’ignaro spettatore, che entra in sala attratto innanzi tutto dal fatto che non deve pagare il biglietto, viene suo malgrado coinvolto in una messa in scena decisamente inquietante (visti i tempi che stiamo vivendo, fingere di bloccare tutte le uscite della sala di un teatro, comprese quelle di sicurezza, trattenendo gli spettatori stessi come ostaggi, l’eufemismo “inquietante” è decisamente appropriato). E’ vero che sono soltanto attimi quelli che precedono l’inizio dello spettacolo vero e proprio, ma è anche vero che in quegli attimi di panico potrebbe succedere di tutto. In ogni caso potrebbe essere un rischio calcolato : le Cose sono sempre esistite, appartengono a quel concetto di infinito che per noi comuni mortali resta tutt’ora incomprensibile nonostante i nostri sforzi per comprenderlo; evidentemente, in quel dato momento, è stato, è, e sarà sempre così. La dimensione delle Cose, che nella pièce prende corpo e vita con tre figure astratte, interpretate da tre attrici che in scena devono come si suol dire fare i conti anche con dei costumi non proprio confortevoli, appare allo spettatore come una dimensione che trascende il divino, e che si pone come elemento fondante nelle vite di tre personaggi completamente diversi tra loro, i quali, con il contributo alieno delle Cose, riusciranno a comprendere i troppi sbagli commessi nelle loro misere esistenze. Da come si evince dal sottotitolo, provocatoriamente usato per esortare lo spettatore medio a decidersi finalmente di non guardare sempre le solite cose, la visione è rigorosamente consigliata a un pubblico minorenne.
  • Il sesto e ultimo lavoro esibito da Delle Chiaie è “Guesthouse”. “Guesthouse” - che sin dalle battute iniziali, o meglio, sin dal nulla più assoluto, mette a dura prova la pazienza dello spettatore - è - definizione dello stesso autore - uno spettacolo pubblico, nel senso che è lo stesso pubblico a essere visto come qualcosa che dovrebbe essere considerato come uno spettacolo. Ambientato in una Irlanda dei giorni nostri, a Samuel Crompton, un aspirante scrittore di mezza età, viene diagnosticato un male incurabile : decide così di mettere a disposizione casa sua a chiunque desideri soggiornarvi, suscitando curiosità e generando inevitabili complotti familiari che, sommati all’amara constatazione dei fatti, lo porteranno a porre fine alla propria esistenza in tragico anticipo.